Con l’albo n. 467, Produci, divora, muori, Dylan Dog rende omaggio a uno dei grandi autori del fumetto italiano: Gianfranco Manfredi, recentemente scomparso. Questo numero non è solo un’avventura densa di mistero e tensione, ma anche il testamento artistico di uno sceneggiatore che ha saputo coniugare profondità filosofica e narrazione popolare.
La storia si apre nel microcosmo di una sala da biliardo, metafora perfetta del libero arbitrio e delle traiettorie imponderabili della vita. Non è un caso che l’incipit editoriale richiami le parole di Zygmunt Bauman, in un dialogo tra filosofia e finzione. Dylan si muove in un mondo dove il confine tra realtà e incubo si fa sempre più labile, in una trama che Manfredi costruisce con rigore, evitando facili stereotipi: niente vampiri, ma qualcosa di più sottile e inquietante. Misteriose morti senza spiegazione razionale, cervelli mancanti, e un mostro enigmatico, tratteggiato con cura quasi chirurgica.
Il tono narrativo è sospeso, a tratti malinconico, come se ogni sequenza fosse consapevole del contesto in cui nasce: l’ultima firma di Manfredi su un albo dell’Indagatore dell’Incubo. La componente visiva, affidata a Sergio Gerasi, è altrettanto incisiva. L’autore gioca con le geometrie del biliardo, suggerendo che ogni vignetta sia il risultato di una traiettoria calcolata ma aperta all’imprevisto. Il disegno è espressivo, dinamico, e accompagna con coerenza la tensione crescente della narrazione.
Oltre alla qualità intrinseca del fumetto, è doveroso soffermarsi sul significato simbolico di questa pubblicazione. Dopo venticinque anni di assenza dalla serie regolare, Manfredi torna a Dylan Dog in un momento inaspettato e doloroso. Come ricorda Barbara Baraldi nella toccante prefazione, lo sceneggiatore ha continuato a scrivere anche durante la malattia, utilizzando la scrittura come rifugio e resistenza. Le sue parole, trascritte nella redazionale, testimoniano un’intenzione chiara: “strutturare la storia intorno allo sconfinamento continuo tra incubo e realtà”.
Produci, divora, muori è dunque più di un fumetto. È un lascito, un ultimo sguardo sull’inquietudine umana e sui meccanismi oscuri che la governano. È anche una riflessione sul tempo, sull’identità, sul ruolo del libero arbitrio in una società dominata da consumismo e alienazione.
In conclusione, questo albo rappresenta un vertice narrativo e umano dell’universo dylaniato. La scomparsa di Gianfranco Manfredi lascia un vuoto profondo nel panorama fumettistico italiano, ma la sua eredità resta viva, impressa nei dialoghi, nelle atmosfere e nei silenzi di un albo che merita di essere letto e riletto.
Un doveroso addio a un autore che ha saputo raccontare l’incubo con lucida empatia.
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Ci sono tanti tipi di assassini, ma soltanto uno che è in grado di asportare il cervello delle sue vittime senza lasciare alcuna ferita visibile. I delitti si moltiplicano, mentre Dylan, incalzato da terrificanti visioni, è costretto ad accettare la sfida di un killer mosso da un impulso irrefrenabile. Non sa che il terreno di gioco è un tavolo da biliardo dal velluto rosso di sangue.